Sono ormai sempre più frequenti le decisioni, di merito e di legittimità, che riguardano licenziamenti disciplinari irrogati in relazione a condotte dei lavoratori consumatesi sui cosiddetti social network e messaggistica. Diciamolo subito: si tratta di decisioni che hanno raggiunto conclusioni non univoche sotto i diversi aspetti. Faremo una breve sintesi.
Diritto di critica e dovere di fedeltà: un necessario contemperamento.
Il diritto di critica del lavoratore viene essere valutato in relazione ai requisiti di continenza formale (anche nei casi in cui la critica del lavoratore sia espressa in forma satirica) e sostanziale (qualora la critica consista nell’attribuzione di fatti determinati). L’abuso di tale diritto è ricondotto invece alla violazione degli obblighi di subordinazione, collaborazione e fedeltà). In tale prospettiva l’obbligo di fedeltà risulta violato non solo in presenza di quei comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 c.c. ma anche di tutti quei comportamenti che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa stessa, o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Un breve excursus della giurisprudenza sul punto.
Cass. 27 aprile 2018, n. 10280: licenziamento disciplinare di una lavoratrice a seguito della pubblicazione sulla sua bacheca Facebook di un post denigratorio nei confronti del datore di lavoro. La Suprema Corte ha qualificato la condotta della dipendente in termini di diffamazione, con conseguente legittimità del recesso datoriale, escludendo che l’offesa postata sul social network potesse costituire espressione del diritto di critica. Corte d’Appello di Potenza 14 marzo 2017 relativa alla “pubblicazione sul profilo personale facebook del ricorrente di un comunicato ingiurioso e diffamante nei confronti dell’azienda”. Si tratta di una decisione significativa sia nella individuazione dei confini del legittimo esercizio del diritto di critica sia nell’accertamento circa l’attribuibilità al lavoratore del testo diffamante per il solo fatto di averlo pubblicato sul suo profilo (risultando quindi irrilevante chi fosse l’autore). Tribunale di Milano 29 novembre 2017 n. 3153, post di un lavoratore su un gruppo chiuso di Facebook: “al ricorrente è stato contestato di aver pubblicato sul gruppo sul portale Facebook le seguenti espressioni diffamatorie e gravemente lesive della Compagnia e dei colleghi: “dirigenti in uscita (nomi) … nemmeno un bastardo, se la lista fosse iniziata così: (nomi)… allora si che c’era da esultare”. Qui il Giudice “assolve” la critica del lavoratore dicendo in primo luogo che “la parola “bastardi” esprime certamente disistima ma non può certo definirsi diffamatoria, in quanto non è di per sé ingiuriosa, quanto invece esprime mancanza di stima verso il destinatario” e in secondo luogo che “Il ricorrente nel suo post ha fatto una comunicazione di natura sindacale (era un sindacalista, nda). Ciò si ricava dall’argomento di cui ha discusso (ristrutturazione aziendale con eventuali possibili licenziamenti) … Se ciò è vero allora i toni e le espressioni usati non possono essere valutati come se le avesse proferite un qualsiasi altro dipendente, essendo riconosciuto al lavoratore sindacalista un diritto di critica diverso e superiore rispetto a quello degli altri colleghi di lavoro”. Infine il Giudice milanese disquisisce sulla divulgazione arrivando a dire che trattandosi di un gruppo chiuso di Facebook l’azienda non ne aveva accesso e poteva essere equiparato ad una cena tra amici. Corte di Cassazione 10 settembre 2018 n. 21965 secondo la quale “la pubblicazione, nell’ambito di una conversazione chat di un gruppo Facebook composto da una pluralità di soggetti (nel caso de quo, gli iscritti al sindacato Flaica Uniti Cub), di un messaggio offensivo e/o denigratorio dell’amministratore delegato della società datrice di lavoro non integra una fattispecie di diffamazione, stante la riservatezza del messaggio medesimo e “la volontà dei partecipanti alla chat di non diffusione all’esterno delle conversazioni ivi svolte” e non costituisce pertanto giusta causa di recesso”. Quindi la natura “chiusa e privata” della chat utilizzata è sufficiente a non entrare nel merito del carattere eventualmente diffamante di quanto scritto. Tribunale di Milano 30 maggio 2017 ha dichiarato la legittimità del licenziamento disciplinare “visto che il ricorrente, attraverso la creazione, condivisa con i colleghi di lavoro, di un gruppo sulla piattaforma messaggistica “Whatsapp” intitolato al proprio superiore gerarchico (“a cazzo” … l’ho chiamato gruppo a Cazzo perché chiamarlo Spina suca mi sembrava brutto”) ha intenzionalmente posto in essere una condotta volta a denigrare il proprio responsabile di lavoro, da lui apostrofato con epiteti palesemente e pacificamente offensivi e denigratori (“a cazzo … Spina suca”), sicuramente idonei a sminuire la credibilità e autorevolezza, trattandosi fra l’altro di un gruppo “whatsapp” in cui sono esclusivamente presenti dipendenti della resistente e creato in parallelo a quello utilizzato da Spina (“Intersos”) per comunicare i turni e gli ordini di lavoro”. Passando a Twitter il Tribunale di Busto Arsizio 20 febbraio 2018 sul diritto di critica: “I tweet pubblicati dal FO C. e riprodotti nella lettera di contestazione trascendono la mera e legittima critica e rendono esplicito un atteggiamento di disprezzo verso l’azienda e nei confronti dei suoi amministratori, rappresentanti e potenziali partner commerciali. E’ un diritto costituzionalmente garantito quello di esprimere il proprio dissenso rispetto alle opinioni e scelte altrui, ma i toni debbono comunque essere quelli di una comunicazione non offensiva né ingiuriosa se si intende restare nell’alveo di un dialogo, oltre che civile e costruttivo, legittimo. Si deve tener conto, inoltre, che l’esternazione di tali opinioni è stata fatta tramite un mezzo potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone”
Qualche conclusione.
-nella valutazione delle espressioni utilizzate dai lavoratori gioca un ruolo determinante la sensibilità del giudice (l’espressione “bastardo”, ad esempio, oscilla dalla diffamazione al modo di dire socialmente accettato) e ciò anche quando la figura coinvolta sia un sindacalista ovvero si tratti di materia sindacale;
diverse valutazioni vi sono circa la potenzialità comunicativa del mezzo utilizzato per manifestare il proprio pensiero da parte del lavoratore (la partecipazione al gruppo chat, ad esempio, è considerata in alcuni casi alla stregua di un profilo pubblico e in altri casi al pari di una cena tra conoscenti);
- altra questione (su cui torniamo nel successivo post) è quelle delle modalità di acquisizione delle informazioni inerenti alla condotta dei lavoratori e la loro legittimità sotto il profilo della violazione della corrispondenza, rispetto art 4 Statuto dei lavoratori e norme privacy.