Sicuramente scarsa attenzione è stata riservata da molte persone alla riformulazione dell’art. 603-bis c.p. in materia di sfruttamento del lavoro.

Parlo volutamente di “sfruttamento del lavoro” e non di caporalato, come si è soliti fare affrontando questo tema, perché se la vecchia formulazione della norma riservava la condotta vietata a chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”, la novella introdotta dalla legge 29 ottobre 2016, n. 199 ha riformulato la fattispecie allargandone notevolmente il campo di applicazione, con effetti pratici potenzialmente molto pericolosi.

Oggi la condotta vietata è estesa non solo a chi recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro (formulazione che in buona sostanza ricalca la precedente), ma anche a chi utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

Se prima aveva quindi un senso parlare di “caporalato”, perché il divieto ricadeva unicamente sull’organizzatore/intermediatore, oggi è necessario prendere atto che il divieto è stato esteso all’utilizzatore della prestazione, sia essa non regolarizzata o resa dopo formale assunzione.

Certo, è pur sempre necessario che l’utilizzatore sfrutti il lavoratore e approfitti del suo stato di bisogno, ma costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali …;

2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;

…

La violenza o minaccia, che prima doveva caratterizzare la condotta, costituisce oggi un’aggravante di pena, ma non è necessaria perché si configuri il reato.

Il reato è perseguibile d’ufficio.

Gli ispettori del lavoro che ravvisassero i presupposti di reato in sede accertativa dovrebbero segnalare il fatto alla Procura della Repubblica.

E’ fin troppo agevole comprendere che situazioni assai frequenti nella dinamica del rapporto di lavoro (e fino ad oggi relegate al contenzioso per differenze retributive e risarcimento del danno) rischiano ora di assumere rilievo penale.

E’ auspicabile che si consolidi quanto prima un orientamento assai rigoroso, in particolare sull’intenzione di approfittare dello stato di bisogno del lavoratore.

Resta il fatto che la norma si presta ad applicazioni (e strumentalizzazioni) assai pericolose, la cui interpretazione è riservata ad un Giudice (quello penale) che potrebbe non avere chiaro quando lo strumento verrà invocato solo per rafforzare la posizione del lavoratore in una vertenza relativa ad asseriti crediti retributivi.