Non a tutti sarà nota la questione relativa alla sussistenza o meno dell’obbligazione contributiva (gestione commercianti) a carico dei proprietari di immobili che, senza svolgere attività di servizi alcuna, si limitino di fatto a riscuotere i canoni di affitto degli immobili di famiglia. Ciò eventualmente anche in forma societaria, e per ipotesi anche in forma di accomandita semplice, di cui uno dei proprietari (solitamente familiari) risulti essere socio accomandatario.

Due sono in realtà le questioni giuridiche che la giurisprudenza (per lo più di merito fino a pochi giorni fa) è stata chiamata a risolvere.

Se, in primo luogo, l’attività sopra descritta debba essere considerata commerciale, con il conseguente obbligo di versamento dei contributi alla relativa gestione previdenziale da parte dei soggetti abitualmente impiegati in detta attività.

Se, inoltre, il socio accomandatario debba essere considerato ex lege persona abitualmente impiegata nello svolgimento dell’attività.

Giova premettere che le sentenze di merito si sono ripetutamente espresse negli ultimi anni (in via nettamente prevalente) a favore dei soggetti gestori dell’attività, nel senso che l’attività di riscossione dei canoni non veniva riconosciuta come commerciale e, peraltro, al socio accomandatario non veniva attribuita in automatico alcuna “abitualità” nello svolgimento di una prestazione che doveva essere provata con tali caratteristiche dall’Istituto previdenziale.

La seconda delle questioni prospettate era già stata risolta in tempi recenti con la conferma che al socio accomandatario non poteva essere attribuita ex lege alcuna abitualità, da provare in concreto come attività aggiuntiva rispetto al ruolo di accomandatario caratterizzato dai connessi poteri di amministrazione: in questo modo la Suprema corte ha avallato l’orientamento nettamente prevalente nella giurisprudenza di merito, sconfessando gli orientamenti contrari (presenti soprattutto in alcune corti di appello; cfr. Cass. 26 febbraio 2016, n. 3835).

La seconda questione (che attiene, a monte, alla natura dell’attività di riscossione dei canoni), che pure era stata decisa dai giudici di merito pressoché unanimemente a vantaggio dei proprietari di immobili senza che vi fosse alcun significativo contrasto di giurisprudenza, è stata recentemente affrontata per la prima volta dalla Corte di cassazione che, con la sentenza 6 settembre 2016, n. 17643, ha – speriamo definitivamente – risolto il caso confermando la natura non commerciale della mera attività di riscossione dei canoni.

La sentenza ha affermato tale principio in un caso in cui peraltro il soggetto interessato al versamento dei contributi INPS era socio accomandatario di società in accomandita semplice.

Ci si augura, pertanto, che venga definitivamente meno quel nutrito e ripetitivo contenzioso giudiziario avente ad oggetto casi simili.

Sempre che (questo è forse l’unico rischio) non intervenga una “leggina” di “interpretazione autentica” a stabilire che anche la riscossione dei canoni deve intendersi “commerciale” ai fini dell’iscrizione e del versamento dei contributi alla relativa gestione.

La posta in gioco è molto elevata, e i timori in tal senso non sono pertanto infondati.